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HOMICIDE
(HOMICIDE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 14 maggio 1991
 
di David Mamet, con Joe Mantegna, William H. Macy, Rebecca Pidgeon (Stati Uniti, 1991)
Drammaturgo e sceneggiatore collaudato da tempo (Il postino suona sempre due volte di Bob Rafelson, Il verdetto di Sidney Lumet, Gli intoccabili di Brian de Palma) David Mamet predilige i soggetti nei quali il protagonista è tentato, talvolta tradito, da un azzardo, da un salto nel buio: Jack Nicholson sedotto da Jessica Lange fino a giungere al delitto, lo psicanalista di La casa dei giochi, Lindsay Crouse, attratto dagli imbrogli di Joe Mantegna. O il medesimo attore-feticcio di Mamet, criminale dai piedi d'argilla, che in un eccesso di generosità si lascia tentare dall'ottantenne Don Ameche ad un'ultima tournée nei casinò di Lake Tahoe in Le cose cambiano.

Qui Joe Mantegna è alla sezione omicidi, e dovrebbe occuparsi della cattura (allettante, anche perché in concorrenza all'odiato FBI) di uno spacciatore negro; invece, saputo della sua origine ebrea, gli affidano l'assassinio di una vecchia israelita, che poi risulta essere un'anziana combattente. Come dire: tutto comincia come in un efficace poliziesco, pistola in pugno e calzamaglia, un calcio alla porta ed irruzione nella stanza (quasi sempre - forse per far durare un po' più il film - assolutamente vuota). E finisce come un altro film, un viaggio all'interno del suo protagonista, che dovrebbe interessarci più del primo. Uno che propone la domanda: bisogna essere innanzitutto ebrei, o americani?

A rispondere all'interrogativo Mamet potrebbe essere (ma quanti sono i condizionali) l'uomo giusto al posto giusto: raffinato dialoghista, sembra fatto apposta per mettere in bocca ai suoi poliziotti (quasi tutti neri o irlandesi, ma chi volete che vada ormai a scannarsi in quel mestiere?) i "kike" ed i "yid", i "Jew" ed i "Jewish", che in inglese trasmettono perfettamente i piccoli dettagli rivelatori del razzismo quotidiano. L'ispettore Gold, in un ambientino del genere, non può che essere nessuno: un poliziotto, per tutti coloro che poliziotti non lo sono. E un ebreo per i poliziotti.

L'ambiguità di un personaggio che non esiste si fa allora problematica di una generazione che è soltanto la prima, o la seconda, dai tempi dell'Olocausto; ma che ha ormai dimenticato la parlata (e non solo la parlata) yiddish che i padri od i nonni importarono nel Nuovo Mondo. Ricerca sofferta, quindi, di un'identità troppo a lungo soffocata. Che viene a fondersi ad altri interrogativi destinati al protagonista, come allo spettatore: qual'è il confine fra l'effettiva condizione di perseguitato dell' Ebreo, e la sua paranoia di esserlo?

Quanta carne, mi direte, messa sul piatto dal Mamet sceneggiatore: che il regista, puntualmente (oltre che un Joe Mantegna piuttosto incerto sul da farsi) stenta infatti a digerire: a tal punto, lui l'autore specialista in manipolazioni, d'arrischiare a sua volta d'esserne vittima.

Film sul razzismo, il sionismo e l'antitesi di tutto ciò, Homicide finisce per toccarci per quell'ansia di ricupero dei valori (e quel desiderio, che si sente in tanti cineasti israeliti del momento, di aprirsi, di spiegare il proprio mondo); ma di assumere, sicuramente in buona fede, l'ambiguità ("se li perseguitano da 2000 anni, una ragione ci deve pur essere", arriva a dire uno, che non si capisce esattamente se è fatto parlare sul serio... ) che è quella dei procedimenti non proprio padroneggiati.


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